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PENSIERI DI UN MUSICISTA JAZZ

Abbiamo intervistato oggi per il nostro magazine un giovane talento del panorama jazz italiano, Max Trabucco.

Tre aggettivi per descrivere la tua musica

Vorrei cominciare questa intervista innanzitutto ringraziandovi per lo spazio che mi state dedicando. Per me è molto difficile raggruppare in soli tre aggettivi ciò che faccio; la musica che suono o che scrivo viene maturata e modellata dai musicisti che la suonano ed io in quanto batterista cerco di fare da legante, cercando di creare un amalgama sonora che cambia nel tempo in maniera equilibrata. Sicuramente uno degli aggettivi che attribuirei alla mia musica è “ricercata” in quanto ogni componente del gruppo sviluppa ed interpreta in maniera del tutto personale ciò che è scritto sulla carta. Gli altri due aggettivi che utilizzerei per descrivere la mia musica sono “equilibrata” e “vera”, in quanto noi musicisti rappresentiamo in maniera sincera ed estemporanea le nostre sensazioni, cercando di trasmetterle a chi ascolta.

Quando hai iniziato a suonare

Circa all’età di sette anni cominciai ad esercitarmi con delle semplici scale su di una vecchia chitarra

classica trovata in casa. Tuttavia l’amore per il mio strumento, cioè la batteria, è nato l’anno successivo, quando dopo essermi recato in un negozio di strumenti musicali per acquistare uno strumento per mio fratello ne vidi una e da subito iniziai a "stressare" le giornate dei miei genitori cercando di convincerli a comprarmene una.

Battisti o De Gregori?

Battisti. Ricordo che il mio primo saggio di musica, fatto tramite la scuola del paese, fu proprio un tributo a Lucio Battisti e quindi non posso che scegliere lui. Ho passato mesi a studiare alcune delle sue canzoni più famose e ricordo benissimo l’emozione che ho provato quando sono salito su quel mio primo palco: un’emozione che da quel giorno continuo a cercare.

Il pezzo che ti descrive maggiormente

I miei genitori sono entrambi napoletani, quindi sono cresciuto ascoltando musica napoletana o comunque musica leggera; ho passato la mia adolescenza con i Nirvana nelle cuffiette e da quando ho iniziato a bazzicare per i vari conservatori, mi sono appassionato al Jazz, alla classica e alla world.

E’ perciò, difficile trovare un solo pezzo che mi rappresenti. Al momento uno dei pezzi che ascolto di più e che mi emoziona ogni volta che lo riascolto è “La mia terra” di Daniele di Bonaventura, bandoneonista italiano che mi ha omaggiato delle sue belle parole per le note di copertina del mio ultimo disco “Love Songs”.

Trovi il jazz un genere vicino ai giovani?

Fortunatamente con l’avvento delle classi di jazz all’interno dei conservatori italiani, questo genere musicale inizia ad interessare sempre di più i giovani (me compreso!) e ad entrar a far parte della nostra cultura, che ovviamente attinge da un mondo più classico che jazz.

Perchè a tuo avviso è ancora un genere apprezzato da pochi?

La musica jazz, come la musica classica, non è musica da intrattenimento; per comprenderla bisogna prestare attenzione, ascoltare ciò che i musicisti hanno da dire tramite il proprio strumento, sforzarsi di interpretare una frase musicale e di “tradurla” in emozioni e sensazioni; tutto questo comporta una grossa fatica nell’ascoltatore e pochi purtroppo sono disposti a farla.

Improvvisare nella vita come nella musica è difficile, non trovi?

Penso che l’improvvisazione faccia parte da sempre dell’essere umano; è la nostra società che ci porta a schematizzare e a programmare qualunque cosa. Ovviamente il rischio nell’improvvisare sta nel probabile sbaglio ma questo fa parte del gioco.

Parlaci del tuo ultimo disco

“Love songs” è un lavoro al quale sto lavorando da un po’; il punto focale di questo disco non sono, come lo sono state in "Racconti di una notte”, le composizioni originali o gli arrangiamenti, ma l’interplay tra i musicisti. Ad inizio inverno 2017 ho iniziato a pensare ad un lavoro che mettesse a nudo il mio modo di suonare e che valorizzasse la mia personalità, per questo ho pensato di fare un disco interamente in trio; tre punti focali indipendenti ma legati tra loro da un punto d’arrivo comune: la musica. Una volta chiaro il lavoro che avrei voluto fare ho sentito Stefano Amerio, bravissimo ingegnere del suono, nonché produttore di questo lavoro, che mi segue ormai da dieci anni e gli ho spiegato la mia idea. Ne fu entusiasta! Dopo aver ultimato le prove ci siamo recati in studio (Artesuono) di Udine dove il 29 gennaio 2018 abbiamo dato vita a “Love Songs”.

E’ stata una registrazione veloce, siamo entrati in sala verso le 10:00 di mattina e alle 17:00 avevamo già finito di registrare il tutto. Sono davvero felice del risultato ma lo sono ancor di più perché so che questo è un nuovo punto di partenza sul quale lavorare e dal quale voglio evolvere il mio modo di suonare e di comporre.

Il valore sociale della musica: musica come aggregazione ma anche come terapia contro i malesseri della società moderna. A cosa si ispirano i tuoi lavori?

La musica, come spesso si sente dire, è un linguaggio universale, un filo che unisce tutti i popoli, le razze e le religioni, un qualcosa che va al di là di ciò che la società ci impone di essere o di credere. Questa cosa da sempre mi affascina, anche se purtroppo non basta a convincere l’essere umano che l’uguaglianza non è solo una parola…

Da sempre ascolto musica, provo a sbattere la testa sul pianoforte che ho in soggiorno e spesso non ne viene fuori niente di buono, ma ogni tanto, quando sono completamente immerso in ciò che suono, ne esce della bella musica. Non mi sento un compositore, non ho la padronanza della materia tale da riuscire a creare musica con facilità ma io ci provo comunque. Ho speso gran parte del mio tempo a studiare gli aspetti del ritmo più che l’aspetto armonico della musica ma ciò non mi ferma. Quando penso ad un nuovo lavoro penso ad un qualcosa che innanzitutto mi faccia star bene e che mi faccia sentire a mio agio nel suonarlo e nel proporlo durante i concerti. Non ho una “musa ispiratrice”, ho solo una continua voglia di esprimere ciò che sono attraverso il mio strumento. Tutto questo è ciò che continua a darmi la forza di mettermi in gioco giorno dopo giorno.

Le tue aspirazioni per il futuro

Mi piace pensare che il mio futuro sarà un futuro felice. Cerco di impostare le mie giornate facendo ciò che mi piace e vedo che così facendo, oltre ad ottenere risultati, vivo sereno. In fondo ci basta poco per essere felici, probabilmente non ce ne rendiamo conto ma è davvero così.

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